"88
TASTI"
LaDor
2008 ©
CAPITOLO
2
- Ancora
non mangia? - chiese la donna, alzando gli occhi dalla rivista di
cucina da cui stava ritagliando alcune ricette.
L'uomo sospirò, gettando uno sguardo eloquente al vassoio che
reggeva tra le mani: nel piatto, la carne giaceva fredda ed intatta,
insieme con le rade foglie d'insalata, ancora lucide di olio e limone,
e il pezzo di pane morbido, scelto apposta per ingolosire chi invece,
poi, si era limitato a ridurlo in briciole, senza assaggiarne un solo
boccone.
- Cos'è successo a quella ragazza, Dio solo lo sa! - esclamò
il signor Prouvost mentre, con un movimento fluido del calcagno, accompagnava
la porta a chiudersi ed entrava nella cucina. Svuotò con colpi
secchi i piatti nel contenitore del pattume e posò le stoviglie
nell'acquaio poco distante. Ripulendosi le mani nello strofinaccio
che la moglie gli aveva passato, prese una seggiola e vi si sedette
pesantemente.
La donna lo guardava con aria stanca e preoccupata: - Ha telefonato
un tizio da Parigi, oggi. Un certo Mathias: cercava Mélanie,
ma lei s'è fatta negare. Mi ha imposto di dire a tutti che
qui a casa non c'è e non ha lasciato detto dove sia andata...
- chiuse la rivista e raccolse con meticolosità i piccoli ritagli
sparsi per la tovaglia. Sospirò. - Ieri ha chiamato il gestore
dell'ostello presso il quale ha in affitto la stanza: chiede se la
deve considerare ancora occupata, altrimenti, in caso contrario, aspetta
qualcuno che la liberi dalle cose di nostra figlia e saldi le ultime
spese nel – più – breve – tempo –
possibile – Merci... - Si passò una mano tra i capelli,
una volta tanto non raccolti a coda e, quando le ritirò, trovò
impigliato nella vera un corto capello bianco. Se lo rigirò
pensosa davanti agli occhi.
- Non capisco. E' qui da una settimana e non ha fatto altro che star
chiusa nella sua camera e suonare il piano! - guardò il marito
e si morse il labbro, espirando rumorosamente dalle narici dilatate.
- Il piano! Da quanti anni non lo toccava più? Nove? Dieci?
- scosse la testa, - E' semplicemente pazzesco. -
L'uomo di fronte a lei stette ad osservarla per un tempo che sembrò
eterno. - Dieci anni. Esattamente dal 26 ottobre di dieci anni fa,
alle ore 17,45, dopo che siete tornate dall'esame al conservatorio.
- si fermò, richiamando il ricordo, ancora fresco, alla mente:
– Chiuse a chiave la tastiera e ci annunciò che con la
musica aveva finito per sempre. -
La moglie si alzò e iniziò a lavare i piatti che il
marito aveva riportato dal piano di sopra. - Ricordo quel giorno.
Era così sicura che il suo Preludio avrebbe incantato la commissione.
Ci teneva particolarmente, soprattutto per la presenza di M.me Fouchécourt.
Adorava quella donna, non perdeva uno dei suoi concerti alla radio!
- sorrise, intenerita. - Ripeteva che sarebbe diventata brava quanto
lei, se non di più. In questo caso, forse, abbiamo lasciato
che la presunzione le prendesse un po' troppo la mano, Antoine...
-
- Finiscila. - la interruppe brusco il marito, - Mélanie era
veramente brava, la più brava di tutti là dentro, e
ancora oggi mi chiedo cosa possa essere successo in quella sala per
ridurla come l'hanno ridotta. - si alzò e, afferrato lo strofinaccio,
asciugò, come di consuetudine, le posate appena sciacquate,
- Non dobbiamo imputarle nulla: in fin dei conti ha accettato la sconfitta
ed è andata avanti, no? Credo avesse un vero talento, lo diceva
anche M.me Garnier, e ci sono rimasto male per l'esito dell'esame,
non lo nascondo, ma non ci vedo niente di male nel fatto che abbia
deciso di intraprendere un'altra strada e dedicarsi allo studio della
legge. Dopotutto, sarebbe la prima volta che un Prouvost diviene avvocato,
e non è roba da poco. -
La moglie lo squadrò poco convinta: - Dicevi lo stesso prima
della prova al conservatorio, Antoine, ricordi? Non voglio attribuire
colpe, caro, ma dev'essere successo qualcosa di grave, se abbiamo
una figlia ridotta ad uno straccio, che si nasconde come una fuggiasca
e passa le giornate pestando i tasti di un vecchio pianoforte a muro.
-
Monsieur Prouvost appoggiò entrambe le mani al piano del tavolo
e guardò fisso la donna: - Domani chiamerò l'ostello,
va bene? Cos'altro dobbiamo fare? Sarà stanca, avrà
bisogno di riposare! E' naturale, no? Ha detto che il suo periodo
da stagista allo studio legale è terminato da qualche settimana,
che s'è trovata benissimo, che l'hanno apprezzata molto ma
che ha anche lavorato come una schiava. Parole testuali! E poi non
dimentichiamo il lavoro extra alla villa... - si fermò un attimo,
aspettando la reazione della moglie, che non arrivò. - Che
si fosse data da fare lo sapevamo e non ci si sarebbe potuti aspettare
altro da lei, conoscendola. D'altronde, hai sentito anche tu che giudizi
lodevoli s'è meritata: nostra figlia è stata il ritratto
della vera segretaria modello! Non mi stupisce che l'avvocato Fouchécourt
le abbia chiesto di lavorare per lui a casa sua: le referenze le ha
stese e firmate personalmente, doveva essere davvero soddisfatto...
-
- Aspetta, Fouchécourt hai detto? Ma lo studio non è
“Perçois & associati”? Io credevo fosse andata
a servizio dai Perçois! - lo interruppe la moglie, all'improvviso.
- No. Lo studio è “Fouchécourt, Perçois
& associati”, sai quante volte Mélanie l’ha
ripetuto? E no, l'avvocato Perçois non ha niente a che vedere
con il secondo lavoro di nostra figlia... Credo me l'avesse detto
una sera, al telefono, che sarebbe andata dai Fouchécourt:
non vedeva l'ora! Sicura che io non ti abbia detto niente in proposito?
– domandò, un po’ seccato, Antoine.
- Se me l'avessi detto me ne sarei ricordata, non credi? Soprattutto
di un particolare così. Ma lasciamo perdere ciò che
mi dici e non mi dici, o non finiremmo più di discutere.
Fouchécourt… Come la concertista preferita di Mélanie...
che caso... – la donna si sfregò soprapensiero il mento.
- Perché? - chiese il marito, con una punta di malcelato scetticismo
nella voce.
- Non ti sembra una coincidenza un po' strana? Insiste per inviare
un solo curriculum, solo a quello studio legale... -
- Catherine, è il migliore di Parigi, dobbiamo dirci fortunati!
Una referenza positiva da quel posto e potresti trovare tutti i lavori
che... -
- Lasciami pensare, Antoine! - la donna spostava continuamente gli
occhi da un lato all'altro della stanza, come se leggesse i propri
pensieri sulle pareti. - Sebbene le avessimo detto che non c'era bisogno
che si cercasse un lavoro, ha accettato di trasferirsi per quindici
giorni nella villa dell'avvocato, a 40 km da Parigi, a fare la babysitter!
-
- E allora? Inizia a sentire il bisogno d'essere indipendente: che
problema c'è? -
- Ma la conosci tua figlia? I bambini le sono sempre stati indifferenti,
per non dire antipatici! Non accettava neppure di badare alla nipote
di Pierrette, che è nostra vicina di casa da una vita, per
cinque minuti, figurati fare la balia al figlio di due estranei per
quindici giorni! -
- Insomma, Catherine: hai presente la nipote di Pierrette? Nessuno
avrebbe la pazienza... - davanti allo sguardo intimidatorio della
moglie, Monsieur Prouvost ammutolì e rinunciò, seduta
stante, a qualsiasi arringa. D'altronde, conosceva bene le sue
donne: avevano lo stesso carattere, determinato e testardo fino
all'inverosimile. Quando decidevano di raggiungere un obiettivo lo
perseguivano con caparbietà e, nel 99% dei casi, riuscivano
ad ottenere ciò che volevano.
La sua
era una memoria eidetica, lo sapeva da anni. Il giorno in cui aveva
trovato il termine che la definiva perfettamente, se l'era appuntato
su un pezzo di carta, per meglio memorizzarlo e, in quel preciso istante,
aveva scoperto – senza, peraltro, sorprendersene – di
ricordare alla perfezione ogni parola scritta sulla pagina del dizionario,
il colore dell'inchiostro usato dalla tipografia, la dimensione precisa
dei caratteri, fin anche l'esatta posizione delle spiegazzature che
qualcuno, sbadatamente, aveva fatto al foglio. L'appunto, inutile
dirlo, era finito nel cestino della carta straccia. Intesi, quel termine
non l'aveva cercato perché potesse farne sfoggio con qualcuno:
non avendo amici con cui vantarsene, si limitava a tenere la parola
per sé e ad usare il proprio dono naturale con finta noncuranza.
In realtà se ne serviva praticamente sempre: considerava la
propria memoria come la finestra appartata che le permetteva di osservare
la realtà con distacco. Registrava ogni dettaglio, ogni minima
sfaccettatura del mondo circostante e la teneva in sospeso, fino a
che non avesse avuto tempo per esaminarla meglio, con calma. Richiamare
alla mente oggetti, persone, situazioni, luoghi, e passarli in rassegna
con gli occhi della mente era sempre stato il suo gioco preferito,
fin da bambina; non le serviva stare a lungo in mezzo alla gente o
in un posto: sapeva che avrebbe goduto della compagnia o della situazione
più tardi, nell'intimità della propria camera, lontana
da sguardi indiscreti, libera di indagare chi e cosa avesse voluto
e non si curava affatto d'intrattenere relazioni dirette e profonde
con l'oggetto delle proprie scorribande mnemoniche.
Stesa sul letto, lasciò che lo sguardo corresse pigramente
per la stanza, illuminata dal pallido sole autunnale che, quel giorno,
faceva coraggiosamente sfoggio di sé, attraversando la foschia
in cui era immerso il piccolo paesino di provincia in cui viveva.
Chiuse gli occhi e richiamò alla mente un pianoforte scuro
e lucido e una parete azzurra. Al pianoforte aggiunse una figura,
pian piano, quasi si creasse sotto le mani di un artista incerto su
come procedere. Le piaceva prolungare a lungo l'attesa del suo
arrivo, per meglio gustarselo. Osservò da vicino i capelli
castani, morbidi e mossi, lunghi alle spalle, di cui alcune ciocche
ramate erano state distrattamente raccolte in un fermaglio, poco sopra
la nuca. Lasciò che lo sguardo accarezzasse piano il collo
candido, punteggiato qua e là da piccoli nei, perfettamente
circolari, ma del tutto privo di rughe, seguisse la piega dell'orecchio,
indugiando sul grazioso orecchino di perla che adornava il lobo e,
finalmente, arrivasse al viso. Il naso affilato, le gote lisce e sode,
la bocca dalle labbra sottili, piegata in un sorriso distaccato, tutto
dedicato allo spartito poco distante, le si disegnarono dinnanzi con
la nitidezza di una presa diretta. Ariane Fouchécourt suonava,
rapita dalla musica, e non poteva accorgersi della creatura che la
stava osservando, vorace di particolari. Di lei. Mélanie
le girò attorno e, davanti ai suoi occhi, si disegnarono nuove
angolature, nuovi dettagli: gli occhi di Ariane, di un marrone caldo
e setoso, così vivaci e attenti, specchi involontari di un'anima
tanto semplice da spogliare; due lievissime rughe d'espressione che
si drizzavano, brevi ed impertinenti, dal principio del naso, ai lati
delle sopracciglia, su, verso la fronte ampia, sulla quale s'allungava
sfuggente l'attaccatura a punta dei capelli, dei quali nemmeno uno
bianco... Allungò un dito, violentemente tentata dall'idea
di toccare la sua creazione, ed era quasi riuscita a portare a termine
quel capolavoro mentale quando, all'improvviso, qualcosa le impose
di aprire gli occhi.
Con fatica enorme accettò l'idea che l'immagine di Ariane svanisse
nella luce della stanza in cui si trovava; si mise a sedere, rivolgendo,
solo a quel punto, un minimo di fredda e cortese attenzione alla persona
appena entrata, che le stava parlando.
- ... ha richiamato... - sua madre le stava comunicando qualcosa dalla
porta semiaperta, ma lei aveva perso la prima parte, talmente era
stata rapita dalla visione dietro le palpebre chiuse.
- Perdona, non ti seguivo. - le comunicò freddamente.
La madre sospirò, leggermente indispettita dall'atteggiamento
della ragazza, ma non si scompose: - Mathias ha richiamato. Ha detto
d'essere andato all'ostello e che là gli hanno risposto che
non ti fai vedere da una settimana. Era parecchio agitato... - la
donna si prese un attimo di pausa, probabilmente per decidere come
continuare, di fronte all'estenuante silenzio della figlia. - E'...
è il tuo ragazzo, Mélanie? Hai litigato con lui, per
questo ti fai negare al telefono? - lo chiese senza particolare enfasi,
attenta a non turbare l'eventuale suscettibilità che poteva
celarsi dietro quel paio di occhi scuri che la fissavano con noncuranza.
- Gli hai risposto che qui non c'ero? - domandò lei di rimando.
- Sì, ho fatto come mi hai detto... -
- Bene. No. Non è il mio ragazzo. Quasi non lo conosco, a dire
il vero. E' simpatico, ma non è il mio tipo. - fu la spiegazione
stringata della ragazza.
- E come fa ad avere il nostro numero di casa? - chiese la madre,
seccata dall'idea che un “quasi” sconosciuto avesse il
loro recapito telefonico e lo usasse con tanta familiarità.
- L'ho conosciuto a scuola, mamma, e mi ha aiutato in questioni di
lavoro. - rispose prontamente Mélanie, - Così ci siamo
scambiati i recapiti a cui avremmo potuto contattarci, più
che altro per comodità, nel caso mi fosse servito ancora. Tutto
qui, non credo cada il mondo per due telefonate. Appena avrò
occasione d'incontrarlo gli dirò di cancellare il vostro numero
di casa, va bene? - si alzò e s'avvicinò alla finestra,
spostando le tende e guardando distrattamente fuori.
- Questo significa che hai deciso di tornare a Parigi? - chiese la
madre.
- No. - fu tutto ciò che ottenne dalla figlia.
Appena M.me Prouvost ebbe chiuso la porta alle sue spalle, Mélanie
si staccò dalla finestra e tornò a sedersi sul letto,
non prima d'aver preso dalla scrivania una vecchia scatola di cartone,
smussata sugli spigoli e logorata dall'uso prolungato. La aprì
con cautela e passò le dita sulla superficie del contenuto,
con una leggerezza reverenziale.
Osservò le immagini e i ritagli raccolti in tanti mazzetti
ordinati, tenuti insieme da nastri di raso scuro, sorridendo quando
lo sguardo capitava su un dettaglio a lei particolarmente caro. Scelse
a caso un plico di fogli e lo estrasse dal contenitore, sciogliendo
il nastro e sparpagliando le fotografie sul letto. Vecchie immagini
prese da riviste e quotidiani la osservavano dalla coperta chiara,
tutte con lo stesso paio di occhi scuri. In alcune, gli occhi erano
impegnati a guardare altrove, specie in una, dove erano interessati
a qualcosa posto alle spalle del fotografo che li aveva ritratti.
Da bambina le era sempre piaciuto pensare che avrebbe potuto esser
lei la causa di quella distrazione: s'era immaginata la scena per
anni.
Passò un dito sul viso della donna, sorridendo impercettibilmente,
lasciando che il suo polpastrello indugiasse sulla curva delle spalle
e poi nell'incavo tra i seni.
Se qualcuno l'avesse guardata in quel preciso momento, seduta sul
letto, con alcune vecchie fotografie in mano, avrebbe notato un cambiamento
repentino nel suo sguardo, l'aprirsi improvviso di un abisso nel fondo
dei suoi occhi scuri, un vortice capace di risucchiare qualsiasi segno
di vitalità dal viso e dai movimenti trasformati, d'un tratto,
da delicati quali erano, in rigidi ed essenziali.
Nessuno avrebbe mai potuto dire con esattezza cosa le fosse passato
per la mente, quale potenza l'avesse trasformata radicalmente nel
giro di pochi secondi.
Solo Mélanie sapeva cosa le succedeva dentro, quando un particolare
ricordo affiorava alla mente, scansando con irruenza tutti gli altri
e sciacquando via ogni sensazione che non fosse il rancore. Sopito
per anni, finalmente il sentimento che l'aveva tenuta in vita durante
la giovinezza aveva avuto modo di sfogare il proprio eccesso soltanto
una settimana prima, con un effetto domino, ne era certa,
che doveva essere stato spettacolare. Peccato, diceva la Mélanie
rancorosa annidata dentro alla sua testa, non aver potuto assistere,
anche solo per un istante, al suo totale, inequivocabile trionfo su
M.me Fouchécourt. Il vero peccato, invece, sussurrava una voce
nuova - alla quale la ragazza non era avvezza, e che era spuntata
nella sua coscienza all'improvviso, mentre si trovava sul sedile posteriore
dell'auto dei Fouchécourt, tornando alla Villa dopo il clamoroso
successo del primo concerto a Radio France - era stato non tenere
l'autografo tutto e soltanto per sé, al sicuro nella borsa,
come le aveva suggerito una tentazione furtiva ed improvvisa, nel
momento stesso in cui aveva letto le poche righe vergate a pennarello
sul retro della fotografia.
Doveva ammetterlo: la confessione di Ariane le aveva fatto accelerare
i battiti del cuore, almeno per un attimo. Quella notte non era riuscita
a chiudere occhio e non si era spiegata la strana sensazione che l'aveva
pervasa fino alle prime luci dell'alba – a dire il vero, la
voce rabbiosa nella sua mente le aveva ripetutamente suggerito che
era per colpa della normale agitazione di chi sta per mettere in atto
la parte finale di un piano, per altro molto ben congeniato e sicuramente
vincente. Mélanie aveva finito per crederci.
La mattina dopo, mentre camminava lungo la strada, nella desolazione
più assoluta, aveva avuto a tratti la tentazione struggente
di voltarsi e correre indietro, da dove era venuta, irrompere in casa
prima dell'arrivo dell'avvocato e riprendersi la busta color malva,
con tutto il suo contenuto. Poi si sarebbe accommiatata da Ariane
- la sua Ariane, quella che avrebbe ricordato per sempre
e che avrebbe sostituito M.me Fouchécourt nella sua testa,
finalmente – le avrebbe chiesto scusa e allora, solo allora,
se ne sarebbe andata per sempre. Spezzandole il cuore, è vero,
ma forse non del tutto. Forse senza danni irreparabili...
Inutile
dire che la ragazza non aveva dato corso all'impulso strampalato che
avrebbe dato un finale diverso al suo piano di vendetta. Aveva proseguito,
impettita e fiera di ciò che aveva fatto, fino alla stazione,
dove aveva pagato il biglietto in contanti ed aveva atteso il treno
seduta nella piccola sala d'aspetto, tutta vetri e spifferi, in cui,
solo due settimane prima, aveva fatto il suo incontro con la concertista,
dopo dieci anni dall'ultima volta in cui si erano viste. Della tentazione
buonista s'era sbarazzata velocemente, riducendola ad un lieve pizzicorio
della coscienza che, però, sapeva mettere a tacere subito.
Le bastava riportare alla mente quel giorno di tanti anni prima, l'imbarazzo
e la rabbia, la sconfitta bruciante di fronte al suo idolo, così
scostante e distratto, quando invece avrebbe dovuto essere totalmente
concentrato sul suo Preludio. Su di lei. Per Dio, non era
forse la bambina migliore fra tutti i presenti?? Aveva studiato giorno
e notte, per quella prova, dividendo il proprio tempo libero tra Bach
e l'imparare a memoria i passaggi, anche quelli più difficili,
dei concerti di M.me Fouchécourt - che ripeteva mirabilmente,
pur suonando semplicemente ad orecchio, davanti a due orgogliosissimi
genitori -. Si era perfezionata, spendendo i pochi soldi che raggranellava
con le mance domenicali dal libraio del paese, facendo arrivare spartiti
sempre più ricercati direttamente da Parigi. Per ricavare cosa?
Il fatto di essere considerata meno importante di un autografo, firmato
con noncuranza mentre lei stava suonando, per dimostrare
a M.me Fouchécourt tutta la sua bravura.
Odiava quella donna. Sì, faceva bene ad odiarla e meglio ancora
aveva fatto a vendicarsi del torto subito. E che quella stramaledetta
voce la smettesse pure di farsi viva, tentando di convincerla che
in lei era nato qualcosa di nuovo: i suoi sentimenti erano merce privata,
non intendeva condividerli con nessuno, tantomeno con una donna di
mezza età. Figurarsi! La lieve simpatia che aveva provato per
lei era solo commiserazione, nient'altro. Sicuro, niente di più
che puro compatimento per il destino a cui Ariane sarebbe andata in
contro di lì a poco.
Ariane... Doveva smettere anche di chiamarla così:
non era una persona, era un mostro e come tale andava trattata! Era
M.me Fouchécourt, punto e basta.
Rimise le foto ordinatamente una sopra l'altra e le riunì con
il nastro di raso, sistemandole nel contenitore con gesti d'automa.
M.me Fouchécourt la guardava sorridendo quando lei abbassò
il coperchio della scatola. Mentre riponeva il suo pacco di ricordi
ben nascosto nell'armadio, il pizzicorio alla coscienza iniziò
di nuovo a farsi sentire e una lacrima ribelle le scivolò,
senza permesso, sulla gota pallida.
- Buongiorno
M.me Fouchécourt! - il saluto di Jackie Onfray, così
gioviale e sincero, la fece sentire come se conoscesse quella donna
da sempre. In realtà, con la segretaria personale del marito,
aveva avuto solo rapporti formali, da un capo all'altro del telefono,
anche se per più di dieci anni. Era stata proprio lei a presentarle
Ingrid, la governante che si prendeva cura di Tristan quando lei,
negli anni successivi alla gravidanza, mentre tentava di riavviare
la sua carriera da solista, doveva assentarsi per i rari concerti
che Werker riusciva ad organizzarle; poi, dopo l'incidente, Tristan
era stato iscritto ad un collegio in città, dal quale si allontanava
solo in occasione delle vacanze estive o dei periodi di pausa disseminati
lungo l'anno scolastico e la signorina era stata chiamata sempre più
di rado...
Al pensiero che era stata proprio la figlia di M.me Onfray a dare
forfait, quando Ingrid si era detta già impegnata per il ponte
di Ognissanti, permettendo, così, a Mélanie di entrare
in casa sua e nella sua vita, Ariane sentì un cappio stringerle
la gola.
- Che piacere vederla, dopo tanto tempo! - la segretaria le si fece
in contro, stringendole con dovuto slancio la mano che lei le tendeva.
- In cosa posso esserle utile? L'avvocato non aveva lasciato detto
che lei sarebbe passata... - iniziò, quasi a volersi giustificare
in anticipo di eventuali dimenticanze.
- Buongiorno, Madame. - ricambiò con cortesia Ariane, - Non
si preoccupi, non avevo avvisato mio marito che sarei venuta. E, in
fin dei conti, non è nemmeno una cosa molto importante... -
La donna la guardò con aria esplicitamente interrogativa: Ariane
si sentì in dovere di continuare. - Bé, sì, non
si tratta di scaramucce legali! - cercò di sdrammatizzare,
sorridendo. - Semplicemente cerco delle informazioni... - lasciò
volutamente la frase in sospeso.
- Informazioni di che tipo? - s'informò M.me Onfray, tornando
alla sua scrivania ed assumendo un'aria molto professionale, mentre
s'impossessava del mouse con piglio sicuro e, contemporaneamente,
inforcava gli occhiali.
- Su una vostra stagista. - Ariane si schiarì la voce più
di una volta. Sentiva le gambe tremarle, ma s'impose di restare calma
e compassata, in modo da non dare troppo nell'occhio. - Alla fine
del periodo di prova qui da voi, mio marito l'ha assunta per fare
da babysitter a mio figlio Tristan... - continuò, con tono
volutamente indifferente.
Il viso della signora Onfray s'illuminò: - Ma certo, Mélanie!
Poteva dirlo subito, bastava il nome! - sorrise, - Posso assicurarle
che non abbiamo avuto spesso stagiste del suo calibro: scrupolosa,
attenta ad ogni minimo dettaglio, rispettosa ed interessata. Sempre
in anticipo sull'orario d'apertura dell'ufficio e una delle ultime
ad andarsene. - sospirò con aria depressa, lanciando uno sguardo
d'eloquente contrarietà verso la ragazza che, alla scrivania
posta proprio di fronte alla sua, scarabocchiava di malavoglia appunti
su un foglio. Abbassò il tono, con fare confidenziale: - I
giovani d'oggi sono tutti così superficiali... Mi creda se
le dico che Mélanie era speciale, davvero. Così motivata,
così discreta. Ed efficiente al massimo grado. Da lei si è
comportata bene, spero! -
Colta all'improvviso, Ariane abbozzò un mezzo sorriso e fece
un cenno d'assenso col capo: - Certo: un servizio impeccabile. Credo
che mio marito le abbia detto qualcosa, in merito. -
M.me Onfray si morsicò, pensosa, l'angolo interno destro delle
labbra. - Veramente no. Sa com'è, l'avvocato è sempre
stato molto occupato in questi giorni, non abbiamo avuto tempo per
parlare del più e del meno... - chiosò, con aria di
scusa. - Ad ogni modo, vediamo in cosa posso esserle utile. Comincio
col dirle che tutte le informazioni relative a Mélanie, il
suo fascicolo personale, per intenderci, mi sono state richieste giusto
poco più di una settimana fa da suo marito. Credo volesse concludere
la pratica relativa al pagamento dei giorni di servizio a casa vostra,
ma non me ne ha più parlato, in seguito... -
- Ecco, in realtà... - o adesso o mai più,
pensò Ariane, - Vengo appunto per la questione dello stipendio.
Avrei gradito occuparmene di persona, visto che sono stata io a contatto
con lei... Inoltre, - prese fiato, e coraggio, - quando era da noi,
Mélanie mi ha aiutata anche nel mio lavoro e mi sembrava corretto
riconoscerle un aumento rispetto a quanto pattuito in partenza...
-
- Davvero? - chiese sorpresa la segretaria, interrompendola. - Non
sapevo che quella ragazza fosse una musicista! Quante risorse in una
sola persona! -
- Già, davvero tante... - terminò M.me Fouchécourt.
Nella stanza cadde il silenzio. Alle orecchie di Ariane arrivava solo
l'assiduo ticchettio dei tasti digitati con solerzia in qualche stanza
attigua, il sordo ronzio delle fotocopiatrici e il rumore dei tacchi,
in un andirivieni di passi da uno scaffale all'altro: gli uffici della
“Fouchécourt, Perçois & associati” erano
lo specchio dell'efficienza. Non si stupiva affatto che il marito
ne andasse così fiero.
M.me Onfray era impegnata nella ricerca: sembrava che trovare le informazioni
personali di Mélanie fosse la cosa più difficile del
mondo. Ariane si guardò intorno, immaginando la ragazza camminare
avanti e in dietro per quei corridoi austeri e freddi, perfettamente
in sintonia con l'ambiente di cui era entrata a far parte, grazie
alla sua algida professionalità. Chissà, si chiedeva
la donna, se Mélanie parlava con qualcuno, scambiava battute,
magari sorrideva. Chissà se era riuscita a trarre in inganno
tutti, proprio tutti, lì dentro, o se qualcuno non aveva bevuto
la storia della stagista modello ed era riuscito a trapassare l'aura
di perfezione che la circondava, svelando il suo vero essere.
Poco probabile, si disse, sconsolata, visto la grande stima che la
responsabile del personale tuttora mostrava nei suoi confronti, lei
che le era stata accanto più di tutti gli altri.
- Ecco qui. - esclamò d'un tratto M.me Onfray, lanciando il
comando di stampa con un clik del mouse. - Mi spiace averla fatta
attendere per qualche minuto, ma la settimana scorsa i sistemi sono
andati in tilt e c'è ancora qualche problemuccio nell'accesso
ai database, per non parlare dell'elaborazione dati... - Ariane la
guardava come se parlasse un'altra lingua: a lei gli elaboratori
elettronici, come si ostinava a chiamarli, rifiutando ostinatamente
di passare al più comodo termine pc, erano sempre
sembrati macchine infernali, così freddi ed innaturalmente
perfetti. Notando la perplessità negli occhi della donna di
fronte a lei, Jackie Onfray aggiustò il tiro, arrivando dritta
al nocciolo della questione, afferrando il foglio appena uscito dalla
stampante laser dietro di lei e squadrandolo con aria professionale:
- Nei nostri registri è rimasto il numero di cellulare e il
domicilio qui a Parigi... - si grattò pensosa il mento. - Strano,
pensavo che fosse registrata anche la residenza, invece non ho trovato
niente. - scosse brevemente il capo, allungando il foglio ad Ariane.
- Anche così, però, credo che possa bastare: se non
la dovesse trovare al cellulare, può sempre farle una sorpresa
all'ostello per studenti in cui vive. - sorrise, di un sorriso schietto
e gioviale, che metteva di buonumore.
Ariane si domandò se Mélanie avesse mai risposto con
sincerità alla cordialità di quella donna, ma scartò
immediatamente la domanda, decidendo seduta stante di impegnarsi su
un solo dilemma alla volta, per il suo bene mentale, più che
altro.
Lasciando lo studio legale del marito, le venne spontaneo chiedersi
se ci sarebbe tornata ancora, prima o poi, magari non più come
M.me Fouchécourt ma da semplice Ariane Garder. Fatti pochi
passi dal cancello d'entrata, rendendosi conto di non avere alcuna
fretta, si arrestò, giusto per decidere il da farsi. Aveva
appuntamento con Virginie di lì a mezzora, per cui decise di
avviarsi con calma, lanciando un'occhiata distratta alle vetrine colorate
lungo la via. Davanti all'esposizione di una profumeria – che
le sembrò enorme, vista la vastità delle vetrine (ne
contò addirittura sei) – si fermò, attratta da
un prodotto che conosceva bene, uno di quelli che il marito le regalava
spesso. Non sapeva se l'avesse sempre fatto per vero affetto o, dubbio
che le era sopravvenuto più tardi, col passare degli anni e
l'intensificarsi dei doni, perché in questo modo aveva la speranza
di aiutarla a tener lontano gli effetti del tempo. I piccoli barattoli
blu dal tappo argentato, sistemati con ordine certosino, sponsorizzavano
impunemente la vita eterna. Per lo meno quella delle cellule cutanee.
Ricordava ancora le parole di Jean, la prima volta che era arrivato
a casa, dopo uno dei suoi viaggi interminabili, di fronte alla perplessità
da lei dimostrata davanti a prodotti così costosi: “Niente
come La Prairie è più indicato per mantenersi belle,
mia cara. Non che tu ne abbia bisogno, ma vorrei che questa tua pelle
così liscia si mantenesse tale per sempre...”. Togliendo
la mano che le accarezzava la guancia, l'aveva baciata con misurato
trasporto – c'era Tristan, intento a giocare con le costruzioni,
nella stessa stanza: nessuno slancio passionale era loro concesso,
quindi, per non urtarne la sensibilità acerba – prima
di rinchiudersi nel suo studio fino all'ora di cena. Lei, qualche
ora dopo, davanti allo specchio della toletta, per la prima volta
in vita sua, aveva passato in rassegna tutte le rughe del viso, maniacalmente,
una per una, stirandole con il dito, nell'illusione effimera che bastasse
quel gesto per farle sparire. Col passare degli anni, aveva avuto
bisogno di quelle creme, così come della presenza del marito,
per convincersi che andasse tutto bene, che nulla fosse cambiato nella
sua vita.
Si accarezzò lentamente il dito indice della mano destra, rendendosi
conto che il suo pensiero, più veloce dell'azione stessa, si
era già sintonizzato sulla sera del concerto di Chostakovitch,
nella sua camera da letto. Una vampa di calore corse ad arrossarle
il viso, mentre ricordava con perfezione impressionante la sensazione
tattile della pelle di Mélanie, così morbida e liscia,
quasi di velluto, sotto le sue dita. Anche se l'aveva sfiorata per
qualche istante appena, era sicura, guardando di soppiatto, senza
che l'altra se ne accorgesse, l'immagine della ragazza riflessa nello
specchio, d'aver visto Mélanie sorridere al contatto con la
sua mano. Sul momento non ci aveva badato, troppo agitata e attanagliata
dalle sue solite paure qual era ma, dopo il bacio nel corridoio di
Radio France, tutto aveva acquistato un nuovo spessore. Aveva trascorso
l'intera notte sveglia, non per l'effetto dell'adrenalina che ogni
concerto le scatenava in corpo, ma a chiedersi il perché del
comportamento tanto ambiguo di Mélanie. Fraintendeva, forse,
volando troppo con la fantasia? Il “bacio” era da considerarsi
tale o solo il maldestro risultato di un movimento goffo dei loro
visi? C'era del vero nell'atteggiamento “intenso” della
sua voltapagine? Inutile dire che la sua posizione sulla difensiva,
attuata con tenacia la mattina successiva, era miseramente crollata
nel pomeriggio, quando Mélanie le aveva preso furtivamente
la mano, durante il gioco nel parco, e lei l'aveva lasciata fare,
dominando a stento la marea montante di emozioni che si era sentita
crescere dentro, impetuosa e indifferente alle sue vane resistenze
razionali.
Riavendosi dai suoi pensieri, si accorse di aver attirato l'attenzione
di una delle commesse della profumeria, col suo sostare imperterrito
davanti alla vetrina per parecchi minuti. Così, ostentando
indifferenza davanti allo sguardo inquisitorio della giovane, riprese
a camminare a passo più sostenuto, allontanandosi velocemente
dal negozio e, nelle sue intenzioni, anche dai ricordi che aveva saputo
suscitare.
Il locale
era tutto sommato carino, senza la pretesa esagerata d'essere alla
moda ad ogni costo, come certi Wine Bar o Lounge – perché
poi usare per forza termini stranieri? - nei quali si era avventurata
di rado, ogni volta rigorosamente trascinata dal marito, e dai quali
era sempre scappata nel più breve tempo possibile, per sfuggire
al caos e ai decibel, entrambi decisamente oltre il limite consentito
dalla legge e dai suoi timpani.
Virginie attirò la sua attenzione salutandola a braccio teso.
Lei si avvicinò al tavolino sorridendo.
- Allora: esiti positivi? - chiese l'amica, mentre Ariane si accomodava
di fronte a lei, - A giudicare dal tuo sorriso direi di sì.
– concluse Virginie.
- Non ho aggiunto molto alla situazione, se devo essere sincera. -
spiegò la mora, prima di ordinare un caffè alla cameriera
avvicinatasi in quell'istante. - I pochi oggetti che Mélanie
aveva lasciato non erano che un paio di pacchetti di fazzolettini
di carta e un elastico per capelli. E, a detta di una segretaria,
è già strano che abbia lasciato qualcosa nel cassetto,
precisa com'era. Da M.me Onfray ho ottenuto il numero di cellulare
e l'indirizzo dell'ostello: è ciò che ha scritto nel
suo curriculum alla voce recapito. Niente di più e,
in entrambi i casi, tutte cose che possono servire fino a un certo
punto. - constatò.
- Già. Se il suo piano era premeditato, potrebbe aver fornito
dati falsi ai gestori dell'ostello e per quanto riguarda il cellulare...
-
- Il numero è facilmente cedibile, per cui potrebbe essersene
già liberata. E poi, non essendo della polizia, non possiamo
certo accedere ai dati delle compagnie telefoniche per avere ulteriori
notizie. - sospirò. - Per Dio, Virginie, forse sto sbagliando
tutto. Forse è destino che io non la ritrovi... Dovrei rinunciare
e ricominciare, buttarmi tutto alle spalle. Ma non ci riesco, non
ci riesco... - Ariane si portò una mano alla fronte, con aria
disperatamente triste, mentre gli occhi le si inumidivano.
L'amica la fissò per un attimo, intenerita, poi allungò
la mano e le accarezzò delicatamente quella che lei aveva abbandonato
sul tavolo, accanto alla tazzina di caffè bollente.
- No, non rinunceremo affatto. Non ti meriti di soffrire in eterno,
Ariane: se per ricominciare hai bisogno di mettere, in un modo o nell'altro,
la parola “fine” a questa storia, insisteremo finché
non troveremo quella ragazza. Oggi stesso andremo all'ostello, appena
finito di bere il nostro caffè. Se non caveremo un ragno dal
buco, passeremo al piano B. - esclamò con un malcelato trionfo
nella voce.
Ariane sorrise: - Piano B? Virginie, la tua passione giovanile per
James Bond non si è esaurita con gli anni, a quanto pare. -
si asciugò velocemente col dorso della mano una lacrima che
ancora ammiccava dall'occhio sinistro.
- Ma che 007! - esclamò divertita la donna, - Credi me ne sia
stata con le mani in mano, mentre ti aspettavo? Ho contattato un paio
di amici al conservatorio... -
- Virginie, mi spiace, ma io ora non me la sento proprio di tornare
a suon... - intervenne Ariane, sulle difensive.
- Mi lasci finire? - sbottò l'altra. Ariane ammutolì.
- Ho pensato che, se Mélanie è riuscita a farti da voltapagine
così egregiamente, deve aver sostenuto studi al conservatorio.
Magari interrotti, ad un certo punto e per ragioni sue, ma deve averli
fatti per forza. Per cui se, come credo, faremo cilecca all'ostello,
i contatti che ho al conservatorio ci permetteranno di consultare
l'elenco degli studenti di ogni anno, partendo da quando vogliamo
noi. Anche se, personalmente, penso che ci basterà cercare
negli elenchi degli ultimi dieci, massimo dodici anni, data l'età
di Mélanie. -
Ariane stentava a credere alle proprie orecchie: non aveva immaginato
che l'affetto provato da Virginie si estendesse fino a far sì
che l'amica prendesse completamente su di sé anche i suoi affanni.
- Partiamo con il conservatorio statale qui a Parigi poi, nel caso,
vedremo di trovare agganci alle scuole di musica parificate. Se la
sfortuna ci perseguiterà, inizieremo a setacciare gli istituti
di provincia. Sarà un lavoro lungo, Ariane: te la senti di
affrontarlo? - domandò Virginie, allungando all'amica un fazzoletto
di carta.
La mora si soffiò il naso con delicatezza, terminando anche
di asciugarsi gli occhi. - Sì: in questo momento è l'unica
cosa che mi sembra possibile fare. - seguì l'amica che, nel
frattempo, si era alzata ed avviata alla cassa. - Non finirò
mai di ringraziarti, Virginie, davvero. - esclamò, accelerando
il passo in modo da superare la donna e giungere per prima a pagare.
- Non pensarci nemmeno, Ariane: stavolta tocca me offrire il caffè.
- le intimò Virginie.
Ariane la guardò intensamente. - Ci hai fatto caso? - disse,
mentre pagava con noncuranza, del tutto insensibile alle rimostranze
dell'amica.
- A cosa? - chiese l'altra, mentre si avviavano alla porta.
- Il caffè... Anche quando mi avvisasti che in Mélanie,
a tuo avviso, c'era qualcosa di strano, eravamo a prendere un caffè...
Allora non ho voluto darti ascolto e me ne sono pentita amaramente.
Ma stavolta è diverso: finalmente mi sono resa conto di quanto
tu sia nel giusto, come lo eri allora, d'altronde. - s'interruppe,
riflettendo. - Non c'era un filosofo che sosteneva che la conoscenza
può far paura? Bè, aveva ragione... -
Virginie sorrise: - Non ne ho assolutamente idea. Mi sa che te lo
sei inventato... - rise, davanti al finto broncio di Ariane, e la
prese allegramente a braccetto. - Su, andiamo a darci da fare all'ostello,
filosofa... -
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CoNtInUa
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