Dichiaro: tutti i personaggi qui trattati non mi appartengono, essendo di proprietà di Denis Dercourt e della Diaphana Film. Mia è la storia, ma non intendo guadagnare denaro grazie ad essa, tanto meno infrangere in alcun modo le regole del copyright.
Note: tutti i personaggi, le situazioni ed alcuni dei dialoghi a cui si fa riferimento sono presi direttamente film “La tourneuse de pages” (“La Voltapagine”, in italiano), di Denis Dercourt (Francia, 2006 - 2007 in Italia -). La storia narrata prende il via subito dopo il finale del film ed è sviluppata secondo il mio arbitrio, completamente sganciata, quindi, dalle intenzioni dello sceneggiatore originale. Questo è il racconto di ciò che potrebbe essere accaduto in seguito. Sebbene non sia vitale, consiglio a chiunque voglia leggere questo racconto di vedere il film, in modo da stabilire la connessione temporale adatta...

"88 TASTI"

LaDor 2008 ©

 

NB: nel film di Decourt la musica ha un ruolo molto importante, segna esattamente i ritmi della narrazione. Anche questo racconto ha riferimenti musicali precisi al suo interno. E' stato mio primo intento ricreare la connessione, già esistente nella pellicola, che faceva sì che la musica sottolineasse e regolasse, come un secondo metro di regia, le singole scene, regalando loro spessore e carattere. In base a questa idea, ho scelto accuratamente i brani che Ariane, Mélanie o altri personaggi eseguono via via che il racconto si sviluppa. Inoltre, ho creato dei punti caldi ad ogni citazione musicale precisa: cliccando su di essi si potrà ascoltare un breve spezzone del brano citato e ricreare, anche da un punto di vista “sonoro”, l'atmosfera del racconto.

88 TASTI

CAPITOLO 1

 

Aprì gli occhi a fatica. Sentiva tutto il corpo indolenzito dalla posizione innaturale ed un dolore lancinante le trafisse il collo, non appena tentò goffamente di mettersi seduta. Riuscì a mettere a fuoco il viso del figlio, inginocchiato accanto a lei, pallido e piangente, scosso da singulti che ai suoi orecchi suonavano orribili e strazianti, come mai le era capitato prima. Era rinata e subito morta: così si sentiva. Cos'era successo? Il ricordo le perforò la mente in un lampo. Desiderò che quello fosse un sogno, uno di quegli incubi che la perseguitavano dal giorno dell'incidente d'auto, dai quali usciva sudata e ansimante, ma rincuorata dalla vista del soffitto della camera da letto.

Purtroppo sapeva bene che quello non era uno scherzo dell'inconscio: le sue paure si erano materializzate tutte, vischiose ed imbarazzanti, le si erano appiccicate addosso e avevano trasformato in un istante la sua vita in un inferno.

Jean? Dov'era suo marito? L'aveva lasciata nella sala della musica, sola con il suo smarrimento, con il suo dolore, con i suoi timori. Avrebbe preferito che l'insultasse, che la picchiasse, addirittura, anziché trincerarsi dietro quel silenzio stridente, incenerendola con uno sguardo carico di delusione e rammarico. Anche il suo cuore si era spaccato? Probabilmente.

Allungò una mano tremante verso il figlio, asciugandogli una lacrima che scorreva impertinente sulla gota pallida: no, Tristan no. Non meritava un destino così: troppo piccolo, troppo indifeso, e lei non era riuscita a fare altro che trascinarlo nell'abisso con sé.

- Non piangere, sto bene. – abbozzò un sorriso, stupendosi della freddezza che riusciva a dare alla sua voce.

Il bambino la guardò, sgranando gli occhi e tirando su col naso. Dentro quel maglioncino chiaro sembrava quasi trasparente e, per una frazione di secondo, Ariane si chiese se non fossero in realtà tutti fantasmi, intrappolati nella grande villa immersa nella nebbia d'inizio novembre, come in quel film che Jean l'aveva costretta a vedere, anni prima.

Se è così, pensò, è la punizione che merito per il male che ho fatto a questa creatura che mi chiama ancora mamma.

Si mise in piedi a fatica, appoggiandosi alla seggiola accanto, fragile barriera fra lei e il mondo intorno che, di lì a poco, sarebbe stata costretta ad affrontare con armi spuntate. Lo doveva ammettere: la ragazza aveva fatto un lavoro sublime, circuendola e portandola ad impazzire, completamente. Sorrise, di un sorriso amaro, e considerò che non sarebbe stata mai più capace di ridere di cuore, per il semplice fatto che, di un cuore, era ormai rimasta sprovvista. Lei se l'era portato via quella mattina, sparendo presto, perché nessuno la sentisse, perché nessuno sapesse che se ne stava andando, trafugando anche l'ultimo barlume di felicità da quella casa.

Respirò a pieni polmoni un paio di volte, come a prendere di nuovo coscienza d'essere viva, appoggiò le mani sulle spalle del figlio e cercò dentro di sé tutta la delicatezza possibile.

- Tristan, mamma sta bene, ma deve parlare con tuo padre, ora. Ci sono cose che dobbiamo chiarire ed è necessario che restiamo soli. - notando che gli occhi del piccolo iniziavano a riempirsi di nuovo di lacrime, presa dal panico, lo rassicurò, mentendo. - Va tutto bene, caro. I grandi a volte hanno problemi che voi bambini non potete capire ma, appena finito, ti prometto che starò con te. - Tristan la guardava stupefatto di tutte quelle attenzioni. Lei seppe d'aver esagerato, con lui sbagliava sempre approccio. - Ora và in camera tua. Più tardi andremo insieme a dar da mangiare a Jealous, vuoi? -

Il bambino accettò la proposta con un lieve movimento del capo e s'avviò verso l'ascensore con passo lento e le spalle curve.

In quella camminata così adulta e desolata, Ariane lesse tutta la tristezza del mondo.

Si ravvivò alla meglio i capelli e recuperò - da dove non ne era certa - uno straccio di coraggio per uscire da quella stanza. L'idea di dover affrontare il marito la spaventava a morte, ma non era forse già morta, in definitiva?

La porta dell'ufficio di Jean era chiusa, ma Ariane percepì nettamente dei movimenti provenire da dentro. Afferrò la maniglia quasi avesse paura di romperla e aprì: per un istante la luce della finestra dietro la scrivania le impedì di visualizzare subito la sagoma del marito, ma la sua voce dolente la raggiunse prima. Una volta tanto, il suono fu più veloce della luce.

- Da quanto? - non c'era rabbia (quanta ne avrebbe voluta, invece!) nelle parole, pronunciate quasi sottovoce.

Ariane deglutì, ed entrò nello studio, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.

- Ho chiesto una cosa. Vorrei la risposta. - nessuna ira, era vero, ma del risentimento, quello sì.

La donna non osò muovere un passo in più. - Da quanto? - scosse il capo, - Non lo so. Forse... sì, forse dal concerto alla Radio... - la gola improvvisamente riarsa, la lingua irrigidita, Ariane provò l'incontrollabile impulso di fuggire, prima di dover andare avanti. Ma non si mosse. Meritava un'ulteriore pena? Forse. Per essere stata sciocca ed essersi concessa di nuovo dei sentimenti, dopo tanti anni di quieto vivere, di tranquillità familiare, in ogni senso. L'ultimo slancio di passione tra lei e Jean risaliva a dieci anni prima: ne era nato Tristan. Così era stata costretta a lasciare le scene per la gravidanza tardiva e a rischio, poi per riprendersi dal parto, poi per accudire il bimbo – onde evitare che l’onnipresente suocera le rimproverasse di anteporre la musica alla propria prole, così come le aveva sempre imputato di preferirla al marito – e, quando finalmente era stata pronta a fare il suo rientro in grande stile, l'incidente in auto. La vita non era stata corretta con lei, lo sapeva bene, solo non comprendeva appieno le motivazioni di questo accanimento.

- Non capisco, Ariane. Perché? Dopo tanto tempo insieme, dopo tutto quello che ho fatto... - se lo ritrovò davanti, la foto del suo autografo stretta in mano.

Ariane non riusciva a togliere lo sguardo da quell'immagine, perforando con gli occhi della mente la carta patinata in superficie, fino a giungere sul lato opposto, dove sapeva erano le parole che avevano dato inizio alla sua fine. Avrebbe voluto cancellarle ma, al di là dell'impossibilità fisica di tale gesto, era cosciente ormai di portare l'amore scritto dentro di sé, oltre che marcato a pennarello sul retro di una fotografia.

- Jean, io... non lo so. - disse, in un sospiro. - E' stato come se tutto fosse naturale. Un... turbamento continuo... un continuo assalto ai miei pensieri... Mélanie... – rabbrividì nel pronunciare quel nome, - Io... non so come sia successo, ma è successo. - concluse, respirando a fatica.

Finalmente lo guardò in viso: lo trovò invecchiato di vent'anni, improvvisamente svuotato di ogni energia, ceruleo. Un fantasma, come me..., pensò.

Jean si spostò, lasciandole lo spazio per passare e togliersi dal vano della porta. Sentiva lo sguardo dell'uomo sul suo corpo e provò un'improvvisa fitta al cuore. Non poteva negare di essere dispiaciuta per lui, per tutta la situazione. Ma, per una volta dopo tanti anni, era stata felice, veramente convinta di poter ricominciare a vivere: di questo sentimento non provava vergogna, solo rammarico per averlo visto sparire così velocemente. Strano, non provava nemmeno paura per le conseguenze: la ragazza l'aveva trasformata del tutto. Com'era possibile che le avesse succhiato via tutta la voglia di vivere in così poco tempo?

- Cos'altro è successo? - chiese lui dopo un'eternità.

Ariane lo guardò interrogativa.

- Intendo... - si fermò, come a trovare la forza interiore che gli permettesse di proseguire.

Gli leggeva in volto lo sforzo, avrebbe voluto raggiungerlo nella sua disperazione e consolarlo, ma non erano mai stati abbastanza intimi da compenetrarsi, da comprendersi. E ora era tardi.

- Intendo, - proseguì, - se l'amore che non ti sei trattenuta dal dichiarare così apertamente l'hai anche manifestato in altre maniere. - non riusciva a dirlo, non si capacitava che la moglie potesse averlo tradito con una donna. Queste cose succedevano nei film, quelle produzioni a basso costo per pubblico con desideri pruriginosi, da sfogare nel buio di sale cinematografiche di terz’ordine. Non poteva succedere a loro, no, non ai Fouchécourt: la sua famiglia non era di bassa lega, nella sua famiglia non succedeva niente. Niente di niente. Mai. E andava bene che fosse così.

- Non è successo nulla. - sussurrò lei tenendo gli occhi bassi, vergognandosi come una ladra esposta al pubblico ludibrio, - Non siamo state a letto insieme, se è questo che vuoi sapere. – si morse il labbro inferiore, - Non ci siamo scambiate effusioni in pubblico, tanto meno abbiamo avuto atteggiamenti compromettenti davanti a Tristan. Non sono così stupida. - sentiva tutta l'amarezza, a lungo sopita, montarle dentro a ondate sempre più frequenti. - Lei non ha mai fatto nulla che potesse destare sospetti, Jean. All'inizio non mi accorgevo nemmeno della sua presenza, figurati. Poi, pian piano, è divenuta il mio unico sostegno. – s’interruppe, notando lo sconforto aumentare sul viso di lui; abbassò di nuovo lo sguardo, - Non so neppure io perché e come sia accaduto. Semplicemente mi ha... - si fermò di colpo, come realizzando la verità. L'aveva ingannata? Poteva darsi. Anzi: era ormai appurato. Quando era stata sincera e quando, invece, aveva messo in atto il suo folle piano? Cosa l'aveva portata a comportarsi così? Perché aveva scelto proprio lei, una donna qualsiasi, indifesa, sì, ma anche del tutto sconosciuta? Non si erano mai viste prima, eppure aveva deciso che lei sarebbe stata la sua vittima: perché?

- Non puoi terminare la frase, vero? - il marito sorrise amaramente. - Bene, capisco. – prese qualche istante di pausa, in cui la squadrò con uno strano sguardo: un misto di ribrezzo e disperazione, - Ora ti pregherei di uscire da qui: ho alcune telefonate importanti da fare. - il suo tono, estremamente professionale, la sconvolse più di quanto avrebbe potuto fare una scenata di gelosia. Jean stava assumendo l'aria del giurista, ormai... Vedi, Mélanie, cosa significhi sposare un grande avvocato? A volte ho l'impressione di trovarmi davanti a un giudice... In piedi: entra la corte. La giuria nella mente del marito si era riunita: non le restava che aspettare il verdetto.

- Cos'hai intenzione di fare di me, Jean? - non seppe dire cosa le avesse dato il coraggio di parlare, tutto sommato non poteva pretendere niente da lui, ma si sentiva incredibilmente leggera, libera da un peso insostenibile, mentre pronunciava quelle parole. Stava per perdere tutto, oltre a quello che le era già stato portato via? A conti fatti, non le restava più nulla: non l'amore, non un lavoro, niente carriera e, probabilmente, di lì a poco, addirittura niente famiglia. In definitiva: nessuna vita. Solo la musica. In quel momento decise che avrebbe vissuto solo per essa, senza concedere spazi ad altro. Quindi, che l'uomo che le stava di fronte decidesse pure ciò che gli pareva. Ariane Fouchécourt – poteva ancora chiamarsi così? - avrebbe accettato senza battere ciglio, perché sarebbe stata la vecchia Ariane a pagarne le conseguenze, non la nuova, appena nata dalle sue ceneri.

- Per ora puoi restare qui, ma ti pregherei di evitare di creare occasioni in cui ci si possa incontrare, al di là dei pranzi e delle cene che, per amore di Tristan, faremo insieme. Nostro figlio partirà a giorni per il collegio: fortunatamente per lui questa storia non l'ha toccato più del dovuto. Hai almeno avuto la grazia di tenerlo fuori e di questo ne terrò conto. - tirò un lungo sospiro. - Dopo che Tristan sarà tornato a scuola, deciderò il da farsi. Ti darò comunque il tempo di cercarti un'altra sistemazione... - ansimava nel parlare: il dolore doveva essere fin troppo grande anche per un principe del foro come lui, abituato a celare i sentimenti dietro paraventi professionalmente ineccepibili. – C’è da dire che hai avuto un tempismo perfetto, Ariane: hai di nuovo una carriera e non patirai la fame; il Trio Anima tornerà presto in auge e potrai dedicarti a tutti i concerti e... le voltapagine che vorrai. - eccola: la stoccata infine era giunta. Non sapeva, Jean, che il Trio Anima non esisteva più, che l'incontro con Mac Guerman era fallito miseramente, che Ariane era rimasta senza niente e nessuno. Finché c'era stata la speranza di vivere una storia, sebbene clandestina, con Mélanie, la cosa non le era sembrata di gran peso: da lei avrebbe preso tutta la sicurezza di cui aveva bisogno e che nessun altro sapeva darle. Avrebbe sfruttato – orribile parola a dirsi, ma forse il mondo non è fatto di persone che si sfruttano a vicenda per i più diversi fini? - l'affetto e il patrimonio del marito e sarebbe rinata, professionalmente, ne era sicura (e non poteva essere altrimenti, con Mélanie al suo fianco) e come donna. Tutti ne avrebbero tratto benefici, ne era stata certa fino a quella mattina. Ora, di fronte al fallimento completo di ogni sua aspettativa, si rendeva conto che avrebbe dovuto tirar fuori le unghie: il tempo degli antidepressivi era finito, doveva venirne fuori da sola.

 

Virginie aprì la porta della cameretta. L'interno non era ampio e luminoso come i saloni di Villa  Fouchécourt – dove perfino la stanza di Mélanie era più grande e chiara, sebbene confinata in mansarda – ma aveva l'aria pulita delle camere senza pretese, arredate con mobili funzionali ed usate poco. D'altronde i coniugi Chalter non avevano grandi rendite: fare i musicisti nelle orchestre sembra un lavoro da favola, quando si è studenti al Conservatorio, ma poi si rivela come tutti gli altri mestieri, ti spolpa e ti ripaga con il nulla.

Ariane fece qualche passo all'interno, calpestando con attenzione il parquet chiaro tirato a lucido ed appoggiando la valigia in un angolo: - Andrà benissimo, grazie. - con un sorriso rincuorò l'amica, che la guardava in attesa di un responso.

- E' tutto quello che posso offrirti. - chiosò Virginie, - In questi giorni Laurent è in tournee con l'orchestra, nonostante il dolore al piede e il monito del medico a non fare sforzi. Così – appoggiò una mano esitante sul braccio della pianista, - potremo parlare un po' in pace, come si conviene. - le rivolse uno sguardo carico d'apprensione. - Sono preoccupata per te, Ariane: sei pallida e dimagrita, hai bisogno di un dottore... -

La donna di fronte a lei s'irrigidì: - No, nessun dottore, Virginie. Basta con i medici. - non poté evitare che le lacrime comparissero di nuovo ai suoi occhi: nonostante si fosse ripromessa di essere forte, dover lasciare il figlio al collegio, prima, e abbandonare la casa che era stata sua per anni, poi, l'aveva distrutta. Jean era stato chiaro: finché ci fosse stato Tristan in casa, avrebbero finto di essere la famiglia serena che erano sempre stati; ma, nel momento in cui il bambino fosse tornato a scuola, tutto doveva cambiare: non avrebbe tollerato oltre la presenza di Ariane in casa sua. Lei aveva provato a contestargli che il bambino l’avrebbe capito, prima o poi, ma l’uomo sembrava vivere nell’illusione che negare l’apparenza portasse all’eliminazione radicale dei problemi. Soprattutto non causava scandali: ed era questo l’importante, Ariane l’aveva capito perfettamente.

Per tutti i giorni che avevano trascorso alla Villa, Jean aveva fatto in modo di non restare mai solo con lei, sparendo nel proprio studio, impegnato in lunghissime telefonate, probabilmente – Ariane pensava – per organizzare nei minimi particolari la pratica di divorzio. Lei non l'aveva cercato, con fatica enorme aveva suonato il piano, talvolta in compagnia del figlio, ma soprattutto si era dedicata alle passeggiate, ripercorrendo i vialetti nebbiosi del parco intorno alla casa, sempre sperando che, da un momento all'altro, la creatura bionda che le aveva sconvolto l'esistenza riaffiorasse, comparisse da dietro una siepe, pronta a sfiorarla con lo sguardo, il sorriso emblematico dipinto in volto.

Era sparita, semplicemente. Di lei nessuna traccia, non si era nemmeno data la briga di esigere, in qualche modo – se non personalmente, tramite altri che lo facessero per lei - lo stipendio per i giorni che aveva passato a Villa Fouchécourt, né mandato qualcuno a prendere i pochi oggetti che aveva lasciato allo studio legale o telefonato per organizzarne la spedizione.

Il giorno dopo la partenza di Mélanie, dopo averci pensato per l'intera mattina, Ariane era uscita in auto – da sola - e si era recata fino alla stazione, chiedendo in giro se avessero visto una ragazza  con un cappottino grigio piuttosto dimesso, capelli biondi, probabilmente legati a coda, viso pallido, senza trucco, ma molto bello e regolare... Lungo la strada l'aveva immaginata camminare, rigida come nel suo stile, con la valigia in mano. E pensare che aveva fantasticato mille e mille volte sul loro arrivo insieme alla stazione, gli sguardi in auto – aveva organizzato di andare lei sola ad accompagnarla, senza Tristan – le mezze parole sussurrate, i sorrisi timidi. Avrebbe allungato una mano, prendendo quella di Mélanie, accarezzandogliela, pronta a rispondere alle domande che l'altra le avrebbe certamente posto circa il loro sentimento reciproco e a farne di rimando; poi si sarebbero accordate per vedersi, magari anche subito nei giorni seguenti, tanta era l'ansia di stare finalmente insieme. Invece...

Il bigliettaio, a dirla tutta, ricordava qualcuno che avrebbe potuto essere lei: nessuna fretta di partire, ricordava, nessun sorriso, nessuna espressione. Gli era sembrata vuota, sì – diceva l'uomo, trinciando il tabacco per la pipa, - “vuota” era proprio il termine giusto. Gli aveva messo addosso un forte disagio ed era stato sollevato di vederla partire sul treno per Parigi, di lì a poco.

Ariane era tornata a casa mestamente, rimettendo in ordine i vari pezzi del puzzle: vent'anni, passione per la musica – probabilmente qualche studio alle spalle – ultima residenza Parigi... Il cognome? Prouvost. Mélanie Prouvost. No, non le diceva nulla: non l'aveva mai vista prima e, forse, non l'avrebbe più incontrata. Eppure le era ancora necessaria, perché i sentimenti non si cancellano come il gesso dalle lavagne, non bastava quel tradimento estremo a far sì che si liberasse del suo fardello: l'amava, l'amava ancora, di un amore totale e stupido, indifferente al dolore che esso stesso produceva e che la macerava nel profondo.

- Ho bisogno di mettere insieme i pezzi della mia vita, Virginie. – esclamò, dopo essersi ripresa dai suoi pensieri, - Devo ricominciare daccapo, partire da dove tutto è cominciato, anche se non so esattamente cosa sia o dove si trovi… - considerò, guardandosi i palmi delle mani e sedendosi di peso sul letto.

L’amica le fu accanto, come quando, da giovani, si sedevano nel cortile del conservatorio, fantasticando sul loro avvenire di concertiste – cosa che, per un certo tempo, per Ariane era stata realtà. -. Discorso diverso per Virginie, che si era accontentata di un posto precario da II violino nell’orchestra cittadina e, soprattutto, di interminabili ed alienanti ore d’insegnamento privato a gente che di musica capiva poco o niente.

Ma la confidenza e l’amicizia erano rimaste: forse, il sostegno, Ariane l’aveva sempre avuto da lei, pur se senza l’aura sensuale di cui l’aveva coperto Mélanie.

- Sai che puoi contare su di me, vero? - lo sguardo di Virginie era dolce e pacato, come sempre, e riusciva a penetrare nei suoi pensieri come una lama calda nel burro. Ariane rabbrividì al pensiero dell'opinione che l'unica amica che le restava potesse avere di lei.

- Pensi che io sia un mostro, vero? - le rivolse la domanda con tutta la sincerità di cui era dotata: non era questo il momento delle ipocrisie alto borghesi a cui la vita l'aveva abituata.

- Te l'ho già detto, Ariane: le amiche si capiscono. Io ti conosco da sempre: so quanto dolore e quanta infelicità abitavano con te in quella casa. Mi sono sempre chiesta quando saresti finalmente scoppiata... -

La pianista sgranò gli occhi, ma non proferì parola, attendendo con ansia che l'amica proseguisse.

Sorridendo più a se stessa che alla donna che le sedeva accanto, Virginie continuò: - Tutti potevano fraintendere la tua tristezza per algida noncuranza, ma non io, Ariane. Eri e sei tuttora fragile, esposta a crisi che solo chi ti ha vissuto accanto conosce davvero. Jean forse ha preferito non vedere; in fin dei conti lo posso capire: far finta di niente molte volte aiuta a non impazzire... - sospirò mestamente, interrompendosi.

Ariane la guardava stupefatta: mentre Virginie le leggeva dentro come in un libro aperto, lei non era mai stata nemmeno minimamente attenta ai bisogni dell'amica, seppure macroscopicamente evidenti. Forse non era un mostro per essersi innamorata di Mélanie, d'accordo, ma per la sua insensibilità lo era, eccome, e tale si sentiva, in quel preciso momento.

- Laurent? - ebbe la forza di chiedere, vergognandosi della sua amicizia inetta ed inadeguata.

Virginie sforzò un sorriso tirato ed assentì con il capo. - Mi tradisce... forse da sempre, addirittura da prima del matrimonio, non so... - sospirò, - So di non essere una bella donna, non come te, di sicuro, - volse un fugace sguardo all'amica, - ed ho sempre tollerato, probabilmente per quieto vivere. Ho pensato anche al divorzio, sai? Ma non sono abbastanza forte e, comunque, nonostante tutto, io lo amo. - l'affermazione la buttò fuori come in preda ad uno sforzo sovraumano. - Ci ha provato anche con la tua voltapagine, immagino. - concluse.

- Come lo sai? Te l'ha detto lui? - Ariane si accorse di aver fatto una domanda stupida, ma Virginie parve non averlo notato.

- No, figurati se avrebbe avuto il coraggio d'ammetterlo. Non credere che sia il grand’uomo che spaccia a tutti d'essere... In verità mi è sembrato strano l'incidente e, continuando a pensarci, alla lunga le immagini di quei minuti nella sala delle prove, quelli successivi al suo ferimento e alla mia entrata nella stanza, sono riaffiorati nella mia memoria. La posizione di Laurent, quella di Mélanie, il violoncello nelle mani di lei e non di lui o a terra. Insomma: qualcosa non quadrava e son giunta alle debite conclusioni. - scosse il capo, rassegnata. - Magro bottino, se consideri che mio marito non ammetterà mai le sue colpe e che Mélanie è sparita nel nulla dopo aver provocato mali assai peggiori... - s'interruppe, portandosi una mano alla bocca, cosciente d'aver appena ferito l'amica, pur senza volerlo. - Scusa... - mormorò imbarazzata.

Ariane la guardò, abbozzando un tenero sorriso: - Non preoccuparti, non hai detto niente di male. - le prese una mano tra le sue, - Chi deve chiedere scusa sono io, Virginie. Io: per non aver mai visto né sentito niente, per essermi sempre e solo occupata di me stessa a dispetto delle attenzioni che tu mi hai riservato in ogni momento. - la guardò negli occhi, leggendovi comprensione ed affetto, al posto del giusto rammarico che s'aspettava di trovare.

- Se la tua amicizia non mi fosse andata bene ti avrei abbandonata da tanto tempo, Ariane. - spiegò la donna, - Ma a tuo modo sei sempre stata presente, per me: non ho mai preteso d'avere quello che sapevo non era nel tuo carattere dare. - un lieve rossore inondò le gote della pianista; Virginie proseguì senza darvi peso: - Ora siamo qui, insieme, ed è quello che conta. Abbiamo la possibilità di fare qualcosa l'una per l'altra. Diciamo che c'è, da qualche parte, un dio che ci vuole bene... - considerò le proprie parole con fare serioso, prima di ridere garbatamente di una cosa che neppure lei pensava tanto probabile.

Ariane sorrise alla battuta, ma in cuor suo ringraziò il dio delle piccole cose, che le concedeva un'amica così grande.

- Veniamo a noi. - esclamò Virginie alzandosi. - Dobbiamo stendere un piano d'azione. - Ariane sgranò gli occhi basita.

- Non guardarmi così, non sono impazzita! - rise la donna, - Hai bisogno di mettere insieme i pezzi della tua vita, hai detto, giusto? Bene, è ora di iniziare a cercare le parti del puzzle, o “non concluderemo mai questa sinfonia, ma petite chère”! -

Lo sguardo furbo che si ritrovò puntato addosso, fece scattare in Ariane il ricordo: - Oddio, il professor Hibou, l'avevo completamente dimenticato! - si alzò dal letto e raggiunse l'amica.

- Già, ricordi? Tutte quelle ore interminabili di composizione, passate a studiare armonie improponibili... -

- È vero: che strazio! E come se la prendeva e che arie si dava, con quella sua flemma da nobiluomo decaduto! -

Virginie la prese sotto braccio ed aprì la porta: - Andiamo a farci un tè e anneghiamo nei ricordi felici, che ne dici? -

- Dico che ti voglio bene, Virginie. -

- Esagerata, come al solito... Come tutti i pianisti, d'altronde! -

- Non incominciare, conosco certe battute sui violinisti da far impallidire Marcel Marceau... -

- Mi arrendo, mi arrendo... Ma non cambio idea! -

 

Il corridoio era lungo, lugubre e vuoto. I suoi passi vi rimbombavano amplificati e sembravano l'unico suono, a dispetto delle rade note musicali che giungevano – a tratti -  da distanti sale prova. Svoltò a destra, poi a sinistra, del tutto intenzionata a perdersi in quel dedalo alienante: non l'avrebbero trovata e non l'avrebbero costretta a suonare! Sentiva il cuore battere all'impazzata mentre il corridoio si dipanava davanti a lei come se si creasse appositamente per aderire ai suoi desideri. Trovò un angolo ideale per nascondersi e vi si rannicchiò dietro, completamente incurante dell'eventualità di rovinare lo splendido abito firmato che Jean le aveva regalato per l'occasione. All'improvviso, una figura esile le si materializzò accanto.

La prego, venga...

Ariane si voltò e guardò quell'angelo dritto negli occhi.

Grazie per il tuo aiuto, il tuo sostegno.

Inaspettatamente, la creatura bionda si chinò verso di lei e le sfiorò le labbra con le sue: Ariane percepì una scossa violenta, un colpo al cuore. Chiuse gli occhi, abbandonandosi alle sensazioni che l'invadevano e, quando li aprì, si rese conto di essere nella sala del concerto, davanti a tutti, compreso il marito.

L'angelo la guardava, una piega beffarda ed incomprensibile inarcava le labbra sottili.

- Non so come sia successo, Jean! - gridò, spaventata e colma di vergogna.

- Grazie, può bastare. Avanti un'altra! - sentenziò il marito, alzandosi.

Ariane indietreggiò in cerca di fuga, inciampò nell'abito e cadde all'indietro, cadde, continuò a precipitare in una voragine nera ed appiccicosa che toglieva il fiato.

Dall'alto, nel ritaglio di luce che andava allontanandosi, Mélanie la guardava. E sorrideva.

 

Il soffitto della camera accolse il suo sguardo sbarrato, quando gli occhi si aprirono di scatto, spaventati dal sogno appena giunto a termine. Ariane allungò una mano sul comodino ed afferrò il bicchiere d'acqua che, di consuetudine, preparava ogni sera al momento di coricarsi, portandoselo d'istinto alle labbra. Bevve avidamente. Ormai era abituata alle incursioni, nei suoi sogni, degli incubi più disparati: fin dai tempi dell'incidente d'auto le capitava di non riuscire a dormire più di poche ore continuative a notte.

Regolarizzando il respiro per riacquistare un po' di calma, focalizzò l'attenzione sui deboli raggi di luce che filtravano dalle persiane chiuse ed iniziò a pensare alla sua situazione.

I due giorni trascorsi a casa Chalter erano stati soprattutto d'attesa, anche perché l'idea dell'amica, ossia di andare subito allo studio legale di Jean, era stata scartata quasi immediatamente dopo che Virginie aveva scoperto – Dio solo sapeva come! - che l'avvocato Fouchécourt sarebbe stato in sede per due giorni, dopo di che si sarebbe recato all'estero. Così, le due amiche avevano deciso seduta stante di attendere il momento propizio: si sa che, quando il gatto non c'è, qualcuno ci guadagna sempre...

Ariane era sicura che Jean non avesse detto niente ai suoi associati, tanto meno alle impiegate o alla sua segretaria personale, della loro separazione, ossessionato com'era dalla segretezza e dall'immagine. Quindi, ancora per un po' di tempo, avrebbe potuto presentarsi in ufficio e parlare con loro, anche se, in passato, non era mai stata interessata a creare relazioni con i sottoposti del marito, proprio in quanto tali: il mondo in cui aveva vissuto fino a poco tempo prima era composto da eletti che si sceglievano a vicenda. Da quei circoli assoluti e distaccati dal resto del mondo, le persone “comuni” erano attentamente rifiutate, allontanate, escluse. Ora che si trovava a far parte della massa che invade le strade ogni giorno e mescola il proprio odore con quello dei vicoli della città - e non con la dolce brezza dei parchi privati -, Ariane sentiva tutto il peso delle sue cattive scelte sociali e rimpiangeva di essere stata così poco lungimirante.

La mattina che stava per giungere sarebbe stata la prima in cui, forse, avrebbe ricavato qualcosa di utile: aveva pianificato di cercare un recapito tra gli oggetti personali lasciati da Mélanie, con la scusa di volerla ringraziare personalmente per l'ottimo lavoro svolto a casa sua e con suo figlio. Se non avesse trovato nulla, avrebbe messo sotto torchio l'addetta al personale, sicura di poterne ricavare qualcosa.

Doveva trovarla, doveva. Voleva chiarire con lei, sentirsi dire in faccia che non l'aveva mai amata, che si era presa gioco di una donna di mezza età solo per il gusto di farlo, che aveva voluto dimostrare di essere in grado di farla innamorare... dimostrare a chi, poi? A se stessa? Perché? Perché, perché, perché?? La domanda le rimbombava nella testa, contro le tempie, tamburellava furiosamente all'interno del cranio nel tentativo di venire fuori – e Ariane se la immaginava riempire la stanza, sgusciare dalle imposte e propagarsi, ingorda, per tutta la città, di casa in casa, di testa in testa, fino a che tutta Parigi non fosse stata costretta a portare la stessa sua croce.

Si passò la lingua asciutta sulle labbra aride, mordendosi, poi, il labbro inferiore. Sospirò. Aveva ancora un po' di tempo per cercare di riposare ed accumulare le forze. Si voltò su un fianco e forzò gli occhi a chiudersi: tra le macchie bianche che balenavano davanti alle palpebre abbassate si riformò il viso che, da un lato, anelava rivedere, dall'altro, sperava di esorcizzare al più presto possibile.

- Ti prego, smetti di tormentarmi. - sussurrò alla ragazza di fronte a lei.

Mélanie la guardava, pallida e silente.

Ariane si portò le mani al viso e pianse sommessamente; stava impazzendo: nonostante l'impegno ad essere forte, era sempre l'altra a vincere.

Il nuovo sonno, agitato e faticoso, la colse tra una lacrima ed un sussulto.

Capitolo 2

.:.:.:.:. CoNtInUa .:.:.:.:.

 

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